2 novembre 2010

Verso il cielo

Everest, 1924

La parete nord è esposta ai venti e i due alpinisti hanno dovuto rallentare la scalata; sono in ritardo sulla tabella di marcia, con il buio e il freddo a minacciare la discesa. Ma la vetta è lì a un sospiro, trecento metri di salita ripida, con le gambe ribelli ai comandi del cervello. Ogni passo una tortura, uno sforzo infinito di muscoli tesi. Non è stato semplice arrivare fino a qui. L’entusiasmo della mattina, con il passare delle ore, si era tramutato in sconforto, stanchezza, voglia di abbandonare.
Irvine guardò in alto, verso la vetta nascosta dalle nuvole. Desiderò non averlo mai fatto. Si sentì mancare il respiro e lo assalì la paura di non farcela. Pensò per un attimo di sedersi al riparo dalle intemperie e se l’amico avesse voluto salire, lo avrebbe fatto senza di lui. Si fermò, sbilanciato da una folata di vento.
«Non ho più forze» confessò.
Mallory, che lo seguiva, gli fece coraggio.
«Non possiamo fermarci» e indicò il cielo all’altezza dei loro occhi. «Tra poco ci sarà una bufera di neve, dobbiamo proseguire».
«Non ce la faremo mai…io resto qui».
Mallory lo prese per il giaccone e lo scosse.
«Le montagne non sono impossibili da scalare. È la volontà dell’uomo che le rende tali» poi gli mostrò la corda con la quale erano legati assieme. «La vedi questa? Non ti lascio solo. Se non vuoi ucciderci entrambi, resisti».
In quel momento sentirono i primi fiocchi di neve portati dal vento, la temperatura si abbassò e i due sparirono, inghiottiti dalla bufera.


Everest, 1999

Con il riverbero del sole, la forma indistinta sembrava un grande masso bianco e lucido, seminascosto tra sassi e pietre franate dal costone Nord.
Simonson fermò i compagni di spedizione, si allontanò con cautela dalla pista battuta e si avvicinò a quello che, in realtà, era un cadavere.
L’avevano trovato.
Riposava a faccia in giù. Il freddo aveva conservato intatto quasi tutto, solo il giaccone e parte del maglione erano spariti, consumati dal tempo. Per 75 anni la montagna aveva custodito i resti di Mallory nella neve, ma ora, poco alla volta, restituiva il suo corpo.
Nella tenda, brindavano al successo della spedizione.
«Posso avere questo onore?» chiese Simonson. Con i guanti, facendo attenzione, aprì lo zaino di Mallory e la busta con gli altri effetti recuperati.
Da una vita sognava quel momento, da quando aveva letto in un libro la storia dei due alpinisti, della loro fine, e del mistero che avvolgeva la loro impresa. Nessuno sapeva se fossero riusciti davvero ad arrivare alla vetta. I primi uomini a farlo. E lui lo avrebbe scoperto.
Mise sul tavolo il passamontagna logoro, il respiratore, l’orologio che segnava la stessa ora da quel giorno del 1924, la corda legata in vita e strappata da un’estremità, gli occhiali da ghiacciaio trovati nella tasca del giaccone.
«Dov’è la macchina fotografica?» chiese.
Sperava che le pellicole, rimaste imprigionate nella neve alle basse temperature, potessero trovarsi ancora in buono stato.
«Manca Irvine, però. Potrebbe avercela avuta lui».
«Lo troveremo», disse convinto Simonson.
Controllò meglio gli oggetti. Aveva letto libri e studiato i documentari. Sapeva a memoria cosa i due si fossero portati dietro, e quali erano i doni che avrebbero voluto lasciare alla montagna, una volta arrivati su, a un passo dal cielo.
E l’oggetto di Mallory, lì, sul tavolo, non c’era.


Everest, 1924

Mallory e Irvine si abbracciarono, commossi e in silenzio. A quota 8.840 metri, a un passo dal cielo, non c’erano parole. Solo serenità e una pace irreale. Gli occhi si riempivano increduli di quel panorama che mai uomo aveva mai visto. Picchi, valli, creste innevate, l’orizzonte infinito tutto intorno. E d’improvviso, la fatica del giorno svanì, lì in cima al mondo, verso il cielo. I due alpinisti dimenticarono per un attimo lo sconforto, la paura, la bufera di neve che li aveva inghiottiti a pochi metri dall’arrivo. Perché dopo una certa altitudine non ci sono più cattivi pensieri.
Mallory si aprì il giaccone e, dalla tasca interna, tirò fuori la fotografia della moglie; la baciò e la sistemò sul terreno gelato, protetta da un mucchio di pietre. Irvine prese la macchina fotografica e scattò alcune foto alla vetta, alla parete Nord appena sconfitta e al suo amico, raccolto in una preghiera solitaria. Poi guardò l’orologio. Si era fatto tardi, se volevano evitare il buio avrebbero dovuto rimettersi in marcia. Provò un dispiacere profondo nell’abbandonare quel luogo immacolato, dopo aver faticato così tanto per raggiungerlo, ma dovevano andare. La discesa sarebbe stata ancora più difficile, con il pericolo di slavine nascosto dietro ogni passo.
Si legarono di nuovo in cordata. Con un cenno del capo presero la via del ritorno.
Al campo base non arrivarono mai.



A me piace pensarla così...

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