30 novembre 2010

Buongiorno

Mi sveglio con l’odore del caffè. Per restare aggrappata agli ultimi ricordi del sogno mi raggomitolo sotto le lenzuola e mi giro dall’altra parte.
Niente; le immagini svaniscono piano come la nebbia sotto il sole.
Poco male, comunque. Tra poco arriverà, come tutte le mattine, con la mia colazione su un vassoio di metallo, con stampato sopra la Tour Eiffel, l’Arco di Trionfo e la piramide del Louvre.
Da sei mesi ho questo dolce buongiorno, fatto dei suoi sorrisi, di una tazza di caffè, yogurt e una brioche appena sfornata, croccante, con il ripieno né troppo freddo né troppo caldo. L’adoro.
A volte mi piace osservarlo con gli occhi socchiusi, fingendo di dormire ancora. Lui è premuroso; entra in punta di piedi, mi guarda, e in silenzio apparecchia il tavolino. I suoi gesti sono semplici e precisi: stende una piccola tovaglia, e appoggia il vassoio, con delicatezza, per non svegliarmi. Poi se ne va, senza far rumore, così come è arrivato.
Oggi, però, voglio farmi trovare già alzata, andargli incontro, continuare quei giochi di sguardi e sorrisi. Ogni occasione è un pretesto per sfiorarlo e accarezzarlo. Ho voglia di respirare il profumo del dopobarba, mischiato all’odore della prima sigaretta che si porta addosso; avvicinarmi in punta di piedi e baciarlo sul collo, passargli le mani sui fianchi e sui pettorali.
Colpa del sogno. Mi ha lasciato sulla pelle il desiderio di lui.
Era notte, la porta si era aperta e un attimo dopo il lenzuolo veniva allontanato in fondo ai piedi. Io, sdraiata a pancia in giù, mi ero svegliata nel sentire il materasso abbassarsi sotto il suo peso. Avevo alzato la testa e ci eravamo guardati. Lui sorrideva con l’indice appoggiato sulle labbra. Eravamo rimasti così, trovando piacere nell’attesa. Poi mi aveva accarezzato; era partito dal polpaccio, ed era salito seguendo i muscoli della gamba. Anziché proseguire sul mio sedere, aveva preso la strada più lunga, passando dal fianco. Avevo riso per il solletico, ma non mi ero mossa. Mi piaceva sentire le sue mani su di me mentre mi accarezzava la schiena, le spalle, il collo. Poi aveva sostituito le mani con le labbra. Con piccoli baci si era allontanato, rifacendo tutto il percorso inverso. Quando era arrivato sotto la linea delle natiche avevo sentito un brivido e stretto il lenzuolo con le mani, chiudendo gli occhi. Non resistevo più. Volevo i suoi baci, sentirlo sopra di me, pesante e leggero nello stesso tempo. Volevo spogliare ed essere spogliata, sentire il contatto della mia pelle sulla sua, perdermi nel suo affanno e nel mio respiro corto.
Invece, ho sentito l’odore del caffè e mi sono svegliata.
Ora sono in piedi, davanti alla porta. Addosso ho la sua maglietta che mi ha dato come pigiama. Mi va grande, e ho arrotolato la parte inferiore come una minigonna. Gli piace guardarmi le gambe.
E pensare che di lui conosco solo il nome e la professione. François. Insieme ai suoi complici mi ha sequestrata una notte, intrufolandosi nella villa dove abito con i miei genitori. Da allora sono rinchiusa in questa stanza, ma non mi lamento. All’inizio avevo paura, ma con il passare del tempo mi sono accorta di non desiderare altro che vederlo entrare la mattina a darmi il buongiorno. È il mio piccolo piacere quotidiano, ormai non ne posso fare a meno. Lo vedo per pochi minuti e cerco tutte le volte di prolungare questi attimi, gli parlo, gli racconto di me, cerco di sapere di lui. François è gentile e in quei pochi minuti mi fa sentire sicura e protetta. Non mi fa mancare niente. Mi porta i suoi libri e i suoi cd da ascoltare, così io posso conoscerlo un po’ di più.
So che hanno chiesto un riscatto, ma spero che non venga pagato. Se essere liberata significa non vederlo più, preferisco restare qui per sempre.
Non mi importa cosa pensino gli altri. Mio padre dirà che sono pazza, mia madre sostituirà le parole con le lacrime, qualcuno la chiamerà Sindrome di Stoccolma.
A me piace pensare che sia amore.

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