7 settembre 2010

Riposo paziente

C’è silenzio, e l’aria è fredda. L’oscurità avvolge la stanza come una coperta dalla trama fitta e ogni cosa, attorno, è una sagoma senza forma. L’umidità sale dal pavimento di terra battuta e argilla. Dicono faccia bene. A me, mette solo i brividi.
Sono rinchiuso qui e aspetto. Qui passo le mie ore, che diventano giorni e si trasformano veloci in mesi. Vorrei andarmene, scoprire il mondo. I suoi colori, i suoi profumi. Andrei in un posto al sole, a vedere il mare; con la spiaggia di sabbia fine dove si sprofonda e ci si muove con fatica. Finire sulla battigia, in compagnia di amici a piedi nudi, con l’acqua fresca che si infrange sulle caviglie e schizza sulle gambe; con la brezza che non fa sudare, circondato dal caldo e dall’odore di salsedine.
Invece, mi devo accontentare di guardare fuori dalla finestra, che ogni tanto viene aperta, per far circolare l’aria. Vedo una striscia di prato e il tronco di un albero, in lontananza; a volte il muso di un cane, che si ferma e annusa in giro.
Sempre lo stesso panorama.
Sento il temporale battere sui vetri e mi immagino fuori da questa prigione, fermo, immobile, sotto l’acqua che mi bagna, che mi scivola addosso, fresca. E sentirmi libero, felice. Come un tempo.
Già, perché una volta vivevo all’aria aperta, sotto il sole. La mia casa era una collina profumata del Trentino, in un silenzio diverso da questo, dove gli unici suoni erano quelli dolci della natura, e del vento che correva tra i filari d’uva.
E ora, questa cantina.
Non sono solo però, non sono l’unico imprigionato da muri in sasso spessi un metro, sottoterra e al buio. La compagnia è buona, e ci sosteniamo a vicenda. Veniamo tutti da posti diversi, un insieme variegato, originario di ogni parte d’Italia. La sera, ognuno racconta di sé, dove è cresciuto, quello che ha visto. Così per un attimo, ci sembra di abbandonare questo luogo freddo, dalle volte in mattoni, e visitare posti nuovi e sconosciuti.
Ogni tanto viene a trovarci un uomo. Resta qui qualche minuto, cammina avanti e indietro per la cantina, senza parlare. Prende una bottiglia da uno scaffale e se ne va. E noi sappiamo di aver perso un compagno. E un po’, invidiamo la sua fortuna.
La porta si apre, annunciata dal rumore della chiave nella toppa e dal cigolio dei cardini. Una lama di luce rischiara i gradini in cemento e la sagoma in cima alla scala.
In un attimo, il silenzio umido della cantina è riempito da voci, risate e rumori di posate sui piatti. Mi concentro e sento della musica, in sottofondo, e una ragazza che canta.
Il chiarore dei neon acceca e illumina di colpo la stanza. Riconosco i passi, pesanti e cadenzati che si avvicinano e trattengo il respiro. L’uomo starnutisce, poi si soffia il naso.
Se potessi, mi alzerei in piedi, agiterei le braccia, mi farei vedere. Non posso restare qui in eterno, ho anch’io il diritto di uscire, di vedere il tappo che mi tiene chiuso muoversi piano piano e sparire con un PLOF improvviso. Voglio scivolare lungo le pareti di vetro della bottiglia e riempire il bicchiere; all’inizio solo un paio di dita, giusto un assaggio, e poi giù veloce qualche secondo, ed essere fermato, con un gesto rapido ed elegante della mano. Voglio fare il giro di tutti i calici del tavolo, sentire i commenti di chi mi beve e lasciar loro un ricordo piacevole sulla lingua, nel palato.
In fondo, vivo per questo.
L’uomo si avvicina al mio scaffale. Fa scorrere lo sguardo sulle varie etichette; allunga una mano e prende la bottiglia accanto a me. Poi si volta e se ne va; spegne la luce e si chiude la porta alle spalle.
Sospiro e mi abbandono a un nuovo riposo paziente.
Verrà il mio momento, e quel giorno io sarò pronto; e allora, nessuno si dimenticherà più di me, del mio sapore fresco e frizzante di Müller Thurgau.

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