20 luglio 2010

ALVARO DAZA

Alvaro Daza quel giorno, che solo molti anni più tardi sarebbe diventato Festa Nazionale, si alzò in piena notte, oliò il fucile davanti a una tazza di caffè freddo, e mangiò due fette di mango; poi uscì sul patio, attorniato dal silenzio e dall’odore fermo di pioggia appena caduta, e prese la via più breve per la Radura dei Martiri.
Il ragazzo, unico sicario di Cerro Soledad, era famoso per il dono dell’inventiva con il quale mascherava ogni omicidio in incidente. Preferiva le disgrazie nel fiume, le cui correnti, spesso, impedivano di ritrovare i corpi; aveva un debole per le sciagure domestiche e studiava ogni piano per accontentare le richieste dei suoi clienti: morti atroci, improvvise, nel sonno, disperate o con lunghe agonie. Nessuno si era mai lamentato.
Lo faceva per piacere personale, non per imbrogliare la polizia dato che, al villaggio, gli abitanti sapevano la verità. Perfino il Governatore aveva approfittato dei suoi servigi: in due occasioni e sempre in tempo di elezioni. Tutti, però, tacevano, convinti che ciascuno debba fare ciò che gli riesce meglio. E la sola cosa che il ventenne Alvaro sapesse fare bene era uccidere.
Quella volta il suo bersaglio era l’avvocato Alonso Pedro Morentes conosciuto in paese per la dialettica veloce, per non aver mai vinto un processo e per le amanti vergini che coltivava come un hobby. La moglie, Ines da Silva, aveva sopportato in silenzio la passione scabrosa del marito, fino alla notte in cui le era apparso in sogno San Martino, protettore dei cornuti; sulle sue labbra mute aveva letto il nome di Alvaro Daza e la donna si era svegliata di colpo, maledicendosi per non averci pensato prima.
Perciò lo andò a trovare nella sua armeria, per raccontargli, tra lacrime di rabbia, la sua sventura. Alvaro Daza ascoltò in silenzio, smontando e rimontando più volte un revolver, e alla fine decise di accettare l’incarico. Lei gli confidò un’altra passione del marito: la caccia. Tutte le domeniche mattina, l’avvocato, accompagnato da alcuni amici, abbandonava la toga nera per dedicarsi agli appostamenti nel mezzo della foresta.
«Ci vuole poco per trasformarsi da cacciatore in preda.» disse il giovane alla donna, consolando il suo futuro stato di vedovanza.
Nella Radura dei Martiri, Alvaro Daza aspettò la sua vittima fumando, seduto su un masso nascosto dal muschio umido; attento ad ogni rumore che non fosse del bosco. Appoggiato alla canna del fucile fissava il cielo, dove la notte iniziava a lasciare posto al giorno, attirato dal suono intermittente dei primi uccelli.
Fu in quel momento, che intravide Dio sottoforma di scia arancione nel blu pallido dell’alba.
L’avvocato, arrivando alla radura dei Martiri, lo vide, gli si smorzò la voce in gola e sperò in una fine imminente e indolore. Ritrovò la parlantina perduta, solo dopo essersi accorto che il suo assassino restava inginocchiato sull’erba bagnata e piangeva lacrime da vitello; indietreggiò quindi da dove era venuto, senza trovare il coraggio di andargli vicino.
«Meglio non svegliare il can che dorme.» disse parecchi anni dopo, ricordando l’incontro mancato con la propria morte.
Alvaro Daza entrò in paese a metà pomeriggio, strisciando i piedi e il fucile nel fango. Una folla muta lo accolse e si aprì al suo passaggio. Soltanto Ines da Silva ebbe il coraggio di urlargli “coglione” prima di prendere il battello e abbandonare per sempre Cerro Soledad e il marito.
Tutti sapevano cosa gli fosse successo dal racconto preciso di Alonso Pedro Morentes e immaginarono in fretta il resto.
Lo portarono davanti al fuoco e gli cambiarono gli abiti; lui chiese dell’acqua benedetta e un saio da predicatore. Gli abitanti, uno alla volta, gli parlarono della scia arancione e cercarono di togliergli dalla testa che fosse Dio; gli spiegarono, con le buone e con le cattive, dell’aereo precipitato, gli raccontarono dei soccorsi partiti all’alba e gli mostrarono i primi cadaveri allineati nella sala grande dell’Arcivescovado.
«La gente muore ogni giorno. Così il Signore ci mette alla prova.» fu la sua risposta e capirono di averlo perso per sempre.
Alvaro Daza si chiuse in clausura nella Radura dei Martiri, pronto a passarci il resto della propria vita. Costruì una baracca di legno, con il tetto in lamiera e la arredò solo con un letto e un inginocchiatoio dove passava le ore in preghiere.
Qualche donna, mossa da pietà, lo riforniva di viveri; lui le accoglieva nello spiazzo di terra battuta davanti alla capanna e le benediceva disegnando con il braccio una grossa croce nell’aria. Raccontava loro della sua visione, spiegava quello che Dio gli diceva nell’oscurità della solitudine e a stento riusciva a trattenere lacrime di gioia. Le femmine scuotevano la testa e lo lasciavano nella sua misericordia irreale.
La gente di Cerro Soldedad, con gli anni, imparò a fare a meno dei suoi omicidi; smantellarono la vecchia armeria, gettarono i fucili e le rivoltelle nel fiume, perché non finissero in mani sbagliate, e continuarono la vita di tutti i giorni.
Nessuno seppe dire con precisione quando iniziò il pellegrinaggio. All’inizio visite isolate, provenienti dai villaggi vicini, di curiosi attirati dalla notizia del sicario trasformato in predicatore; poi gruppetti sempre più consistenti arrivarono da ogni parte della regione.
Gli abitanti di Cerro Soledad li portavano alla Radura dei Martiri e per pochi soldi, raccontavano come la vita di un uomo era cambiata a causa di un malinteso. Ai turisti che domandavano se avessero mai avuto un minimo dubbio sulla visione di Alvaro Daza, loro rispondevano: «Gli affari di Dio non hanno mai riguardato questo posto.» Poi giravano le spalle e se ne andavano a smaltire la delusione nell’alcool, abbandonandoli ai sermoni di Alvaro, che, nella sua veste nera e sporca, con la barba lunga e gli occhi arrossati da infinite preghiere, sembrava più un evaso che un prete.
Alvaro Daza scomparve ultracentenario la notte del passaggio della Cometa Allen.
Tutti si prepararono all’evento con occhiali dalle lenti scure, per il timore infondato di una cecità improvvisa, e aspettarono il transito seduti nei patio.
Alcuni ragazzi, più interessati ai piaceri della carne che a quelli dell’astronomia, nel passare dalla Radura dei Martiri, giurarono di averlo visto gettare a terra il bastone, sul quale sosteneva gli anni, e arrampicarsi verso la scia arancione della cometa, glorificando la Santità di Dio.
Non lo trovarono mai più. La notizia circolò con la velocità delle malelingue e gli abitanti di Cerro Soledad restarono sbalorditi nel vedere quanti devoti accorrevano da ogni angolo dei Caraibi per onorare la memoria di uno squilibrato. Si stupirono ancora di più nel constatare l’entità delle offerte che lasciavano; e si resero conto che quello era il primo, vero miracolo del loro concittadino. La possibilità di una vita migliore non era poi così lontana.
Alvaro Daza diventò santo senza l’ufficialità di un processo e la sua baracca venne trasformata in un sacrario, dove fedeli e turisti accendevano un cero per la salvezza delle proprie anime.
La gente di Cerro Soledad stampò banconote con la sua effige, cambiò il colore della bandiera dal paese da nera ad arancione e dipinse una parete di ogni abitazione dello stesso colore. In ogni negozio si vendevano collane, bracciali, libri e reliquie del loro sicario redento. Qualcuno giurò di aver visto l’affresco a grandezza naturale, realizzato sulla facciata del palazzo del governatore, sorridere. E i fedeli, poco alla volta, rubarono pezzetti di muro, da custodire come un miracolo benedetto.
Con i soldi dei devoti vennero costruite scuole, oratori, alberghi in memoria di Alvaro; fu riedificata l’armeria, arredata come lo doveva essere ai tempi in cui il santo si guadagnava da vivere uccidendo i concittadini, e bastò poco perché tutti la credessero originale.
Gli abitanti di Cerro Soledad si riscoprirono guide turistiche; portavano i pellegrini nei luoghi del santo e raccontavano di quando Alvaro Daza legava l’amaca a due alberi, con il caldo opprimente che lasciava la pelle sudata e appiccicosa, e scrutava il cielo stellato in cerca di un altro segno divino. Che non arrivò mai. Spiegavano, con l’ardore di una fede ritrovata, di come, tutto ciò, non scalfì il suo credo e che le parole, gli sguardi e i gesti erano rivolti sempre alla purezza dello Spirito Santo.
Ai fedeli che domandavano se avessero mai avuto un minimo dubbio sulla visione di Alvaro Daza, loro rispondevano: «Non si dubita dei segni di Dio.» e chiudevano l’argomento con il segno della croce lasciandoli al buio, nella radura dei Martiri, alla ricerca di una scia arancione nella notte.





Come sempre un grazie a Davide per la meravigliosa foto.....

Nessun commento:

Posta un commento