6 luglio 2010

IL SERGENTE

Diciannove anni e già uomo. Sulle spalle il peso dello zaino, nelle gambe i chilometri fatti e quelli ancora da fare per tornare a casa. In testa il cappello bagnato di neve e sudore, con la penna mozza, stanca e rigida dal freddo.
Attorno, il nulla, la steppa.
Il vento sibilava tra carcasse di camion anneriti dal fuoco, tra i corpi di pietra dei caduti dagli occhi velati e senza sguardo. I passi pesanti affondavano nella neve fino al ginocchio, in marcia senza sosta tra i boati lontani dei bombardamenti e gli spari del nemico nascosto nella sacca.
Mi sono seduto a riposarmi un poco. O per sempre. Senza forze, senza speranze. Lontano da casa, dai genitori, dagli amici. Nella tasca della divisa una lettera scritta a matita perché a meno trenta l’inchiostro gela. Scritta a metà perché non si doveva perdere tempo nell’unico attimo di pace della giornata.
E’ stato il sergente a tirarmi su di peso. Si è caricato lo zaino in spalla e mi ha lasciato solo il fucile. Al mio fianco mi ha parlato di casa sua, di quello che avrebbe fatto finita la guerra; mi ha promesso che sarebbe venuto a trovarmi ogni anno; mi ha confidato l’orgoglio e il coraggio di essere alpini. La forza di non arrendersi mai, di aiutarsi l’un l’altro, come faceva lui, senza divisioni di età o di grado. Uniti dalle stesse preghiere, dallo stesso simbolo: quel cappello dalla forma allungata, riparo dal sole e dalla pioggia, scodella per l’acqua e cuscino nelle notti in trincea. Con la penna nera amica nelle nostre stesse sofferenze, schiacciata sotto il peso degli zaini, maltrattata dal vento e dalla polvere, sfiorata dai proiettili.
Senza accorgermene eravamo arrivati in un villaggio. Delle isbe ci attendevano con cibo caldo e un letto. E qualche ora di riposo prima di altra strada.
Ora di anni ne ho 86. E lo sento ancora il freddo trasformato in spille di ghiaccio tra la barba incolta, nei vestiti sporchi di sudore e sangue, negli scarponi tenuti assieme da stracci e corda. Avevano ragione i vecchi: l’odore del grasso sul fucile mitragliatore arroventato non lo dimentichi più.
Non manca molto, lo so. Li vedo già gli amici andati, i miei fratelli che sono rimasti là, tra la steppa. Ci sono tutti e mi aspettano.
C’è anche lui, il mio sergente. Mi ha salvato la vita quel giorno nella neve e quella notte durante l’accerchiamento e il fuoco ossessivo dei mortai e dei fucili.
Porto la mano destra alla visiera del cappello, sformato e consumato; ha vissuto i suoi anni accanto ai miei.
Il sergente ha le stesse ferite aperte e gli occhi doloranti. Però sorride e mi fa cenno di raggiungerlo.
Mi metto sull’attenti e gli obbedisco l’ultima volta.

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