15 dicembre 2009

Caterina

La prima volta che la vidi era in cima al muretto che correva lungo il lato occidentale del cortile. Se ne stava a pancia in su, con una gamba tesa e l’altra piegata, i folti capelli neri che le ricadevano dietro la schiena, gli occhi chiusi, il volto verso il sole. Era il tempo in cui gli amori giovanili duravano uno scroscio di temporale. Terremoti di cuori lasciavano gli amanti a terra senza respiro dopo che i battiti cambiavano in fretta il loro ritmo. Io camminavo con la testa bassa e in bocca il sapore delle ultime parole del mio amore crudele. “Non ti amo più” Due settimane da fidanzati nelle quali ogni minuto era per lei. Se n’era andata. E nemmeno tanto lontano, ma nell’abbraccio infedele del mio amico fraterno. Avevo sentito il mio nome e avevo alzato gli occhi verso quella voce improvvisa. “Ti stavo aspettando” mi aveva detto e si era messa a sedere sul muretto. Le gambe ciondolavano e sorrideva allegra. Mi ero ritrovato a strabuzzare gli occhi senza parole. “Tu non mi conosci. Io però conosco te. Ho saputo di Veronica e mi dispiace. Comunque non starei troppo a piangere per lei. Non meritava il tuo sorriso e non merita le tue lacrime” “Chi diavolo sei?” Aveva alzato le spalle come se non fosse poi importante il suo nome. Era scesa con un balzo e si era avvicinata. Mi aveva allungato una mano fragile e abbronzata prima di darmi tre baci sulle guance. “Caterina. Non può essere che non mi hai mai vista a scuola” “Non so come farmi perdonare” avevo risposto tra l’imbarazzo per quei baci dolci, il profumo della sua pelle morbida e per il fatto di non averla mai davvero vista in tutti quegli anni. “Io un’idea ce l’avrei. Conosco un posto dove fanno un gelato delizioso” e senza aspettare la mia risposta mi aveva afferrato il braccio e mi aveva trascinato verso l’ignoto. Aveva chiesto al ragazzo della gelateria di riempirle, con tutti i gusti colorati, il cono più piccolo, fino a farlo strabordare. Io lo avevo guardato come a dire cosa vuoi farci amico, e avevo fatto un sorriso divertito. Quel gelato mi era costato una fortuna ma era davvero di una bontà unica. Il pomeriggio era scivolato via veloce tra chiacchiere timide e mi ero ritrovato a raccontarle ogni mio angolo oscuro. Lei era un libro dove ogni frase aveva il sapore dolce di un nuovo sapere. Era capace di ascoltare e dare una luce diversa ai giorni scuri. Quando avevo bisogno di lei sapevo sempre dove trovarla. In cima al muretto, a pancia in su, con una gamba tesa e l’altra piegata, i folti capelli neri che le ricadevano dietro la schiena, gli occhi chiusi, il volto verso il sole.

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