Erano arrivati verso sera.
Il portone di legno scuro si era aperto di colpo e i due nuovi clienti avevano portato con loro l’aria fresca del giorno che finiva.
Un uomo e una donna. Lui, capelli corti e pizzetto, indossava un completo nero come le notti d’inverno. Sul suo volto non c’era l’ombra di un sorriso.
Era andato verso il bancone e aveva consegnato a Roberta i documenti.
«Cerchiamo una camera per la notte. Ne sono rimaste?»
«Un attimo che controllo. Sì, ne abbiamo un paio. Una in mansarda e l’altra al piano primo. Avete delle preferenze?»
«No, una vale l’altra.»
«Voglio la camera al primo piano. Quella vicino al loggiato.»
La donna era intervenuta nella conversazione senza togliere lo sguardo dalla hall. Il suo tono era quello di un ordine. L’uomo l’aveva guardata senza espressione prima di confermare la camera.
«Avete le valige in auto? Mando qualcuno a prenderle.»
«Nessun bagaglio, grazie.»
Roberta aveva fatto un cenno di stupore prima di alzare le spalle e registrare i nuovi ospiti. Poi aveva consegnato le chiavi della camera e con un sorriso aveva augurato loro una buona permanenza.
Alberto, seduto sul divano della reception aveva guardato la scena di soppiatto. In mano teneva una cartina della zona di Lucca, alla ricerca di un percorso tra le colline per sé e la sua moto.
Aveva spiato distratto, con la coda dell’occhio, la donna muoversi piano e incuriosita. Era bella, vestita di bianco con un tessuto leggero di fine estate. Di un’età indefinita come certe attrici del cinema. Alta e fragile, con lunghi capelli neri che le scivolavano sulle spalle e facevano da cornice a un viso d’avorio.
Guardava il soffitto di legno e il pavimento in cotto e sembrava contenta. Era andata verso la sala da pranzo e aveva portato lo sguardo sulla volta in mattoni. Aveva sfiorato la parete con la mano sottile e bianca e un sorriso triste le era spuntato sulle labbra.
Poi era tornata nella hall e gli era passata davanti prima di salire al primo piano.
Per un momento si erano guardati negli occhi e Alberto aveva capito che lei si era accorta di ogni suo pensiero. Aveva abbassato lo sguardo un attimo dopo averla vista sorridere maliziosa.
Era sparita lungo le scale con il suo accompagnatore a seguirla in silenzio.
Alberto aveva cenato nella sala dal basso soffitto a volta. Si era seduto a un tavolo dal quale poteva vedere la porta del ristorante. Ogni movimento richiamava la sua attenzione e alzava la testa nella speranza di vederla entrare.
Aveva mangiato senza fretta e senza gusto. Una volta finito, era uscito nel portico e si era acceso un mezzo toscano.
Gli occhi lo portavano lontano, oltre il porticato rischiarato dalla luna, lungo la fontana e il piazzale, mosaico di piccoli sassi bianchi e grigi. Si chiedeva quanti passi li avevano calpestati. Quanti uomini e donne avevano lasciato il sudore lungo il viale d’ingresso, chiuso da due file di cipressi con la cima a bucare il cielo. Signori con le carrozze e cavalli eleganti oppure contadini con bestie col fiato corto per la fatica dei campi. Alberto immaginava il tempo trascorrere lento, avvolgere come vento l’hotel, quando tutti lo chiamavano ancora Villa Mansi. Quando Lucida si ritirava nelle proprie camere, alla ricerca di un po’ di fresco nel caldo d’agosto e dove, si diceva, uccideva i suoi amanti dopo una notte di passione. Tra quei muri in sasso con le stanze ampie dai soffitti alti. I passaggi segreti e le passeggiate in giardino.
La prima sera Emilio, il direttore, gli aveva raccontato la storia della sua famiglia e dell’albergo. Del passaggio lento e inesorabile da dimora privata a magazzino di contadini e pastori durante l’Ottocento per poi ritornare all’antico splendore di ora.
Il fumo denso saliva piano tra il buio. Stretto nella giacca jeans ascoltava i rumori della campagna di Santa Maria del Giudice e si sentiva avvolgere dal passato di quei luoghi.
«Mi piace l’odore del sigaro.»
Alberto aveva girato la testa e si era trovato la donna seduta al suo fianco. Non si era accorto del suo arrivo in punta di piedi, leggera come un fantasma. Indossava lo stesso vestito, sulle spalle uno spolverino di cotone nero.
La luce di una luna bianca e immensa si faceva strada tra la notte e la penombra giocava con il profilo di lei.
«Piacere, Alberto.»
«Lucy.»
La sua mano era sottile e delicata. Lui l’aveva tenuta tra la sua più a lungo del dovuto e lei non l’aveva ritirata.
«E’ la prima volta che vieni da queste parti?»
«Sì. Sono in vacanza e sto facendo il giro della Toscana in moto. Tu?»
«Ho già conosciuto questi posti, ma è stato tanto tempo fa. Ora tutto è cambiato. In casa ci sono ancora angoli dove ho lasciato i miei anni migliori, per tutto il resto non c’è più traccia di me. Non è stata una buona idea tornare.»
Il silenzio era sceso tra i due come una pioggia sottile.
Alberto l’aveva sentita piangere in silenzio e si era ritrovato a tenerla tra le braccia. Sentiva l’odore di fresco e di vaniglia della sua pelle e non aveva parole da sprecare.
L’incanto si era rotto troppo presto e Lucy si era liberata. Aveva recuperato un fazzoletto e un piccolo specchio dalla borsetta e si era ricomposta.
«Scusami.» aveva sussurrato piano e con una voce di miele.
Poi si era alzata e gli aveva teso una mano.
«Vieni con me.»
Alberto non aveva chiesto dove, ma l’aveva seguita.
Erano ritornati nella hall e poi verso le scale con solo i rumore dei passi a far loro compagnia.
Lucy l’aveva trascinato lungo il corridoio. Si era fermata a metà e lo aveva messo con le spalle al muro. Prima di appoggiare le sua labbra a quelle di Alberto aveva chiuso gli occhi e sospirato.
Era stato una bacio da togliere il respiro. Lungo. Le mani di lei avevano tirato fuori la camicia di Alberto dai jeans e si erano intrufolate svelte a sfiorargli i fianchi.
Quando si erano staccati si erano scambiati un sorriso e lei lo aveva preso di nuovo e trascinato verso la porta della camera.
«E l’uomo che è con te?»
«Non pensarci. Non è qui, e non tornerà. Almeno non adesso. Ti voglio dal primo sguardo.»
E lo aveva baciato di nuovo. Lo aveva portato sul letto e l’aveva fatto sdraiare. Una mano aveva strappato di colpo i bottoni della camicia e l’altra aveva ripreso a sfiorare il suo corpo.
Si era staccata all’improvviso. Aveva fatto due passi indietro e lo aveva guardato. Aveva sciolto dietro il collo i lacci del vestito che era caduto senza rumore sul pavimento.
Alberto era rimasto senza fiato nel vedere quel corpo nudo tra la penombra. Il ventre piatto e delicato a metà strada tra due gambe lunghe e lisce, e i seni tondi e morbidi che si muovevano al ritmo del suo respiro.
Si era alzato e le era andato incontro. In piedi aveva percorso con il dorso della mano la linea dei fianchi per finire sotto al seno e risalire lungo il collo. Lucy aveva piegato di lato la testa e chiuso gli occhi. Alberto l’aveva baciata piano e senza fretta sotto l’orecchio e sotto il mento prima di proseguire verso le labbra rosse e socchiuse che lo chiamavano in silenzio.
Lei si era fatta prendere in braccio . Erano finiti di nuovo sul letto, tra il fruscio del lenzuolo tiepido di una notte d’estate.
Alberto sfiorava ogni centimetro del corpo di Lucy e le guardava il viso, specchio del suo piacere.
La donna era scesa a ricompensarlo, con la lingua a disegnare il contorno delle labbra, la mano persa nella carezza lungo il petto e giù fino ai bottoni dei pantaloni.
Senza timore li aveva slacciati e lo aveva aiutato a gettarli lontano contro il muro.
I boxer erano l’ultimo lembo di tessuto rimasto a dividerli.
Lucy aveva giocato con l’elastico prima di strapparglieli in fretta e cadere di nuovo labbra contro labbra, verso quell’amore notturno.
All’alba Emilio era ancora chiuso nel suo ufficio.
Si era alzato dalla scrivania e si era portato verso la parete dove dalla portafinestra poteva guardare la valle verso Lucca. Aveva tolto il quadro per rivelare una piccola cassaforte. Ne aveva estratto un foglio dal colore della terra bruciata e con i segni delle pieghe formate dalle tante volte in cui era stato aperto.
Era un atto, vecchio di anni.
Era un patto.
In fondo, la sua firma e quella del Diavolo e della sua consorte. Lucida Mansi.
Sistemare l’albergo gli era costato fatica, sudore e sacrificio. Ma aveva avuto anche un aiuto prezioso e fortuna nel trovare in una nicchia nascosta nei sassi l’antica formula usata da Lucida a metà del Seicento per chiamare a sé il Signore delle Tenebre.
Le leggende di paese raccontavano di questa donna, bella e altera, amante di festini e di uomini. Quando la prima ruga inesorabile aveva fatto la sua comparsa, aveva chiamato a sé il Diavolo e per altri trent’anni aveva potuto vivere la propria esistenza come aveva sempre fatto. Gli anni scivolavano su chi la circondava e lei restava la giovane di sempre.
Allo scadere del tempo concesso il Diavolo era venuto a prenderla su un carro di fuoco ed erano sprofondati nei giardini dell’Orto Botanico di Lucca.
Quello che nessuno sapeva era che il fascino di Lucida aveva incrinato anche i sentimenti del Demonio. L’aveva sposata ed era lei la vera essenza crudele della coppia.
Emilio se li era trovati davanti. L’aveva riconosciuta subito perché ogni lucchese conosce quel dipinto in cui è ritratta mentre guarda il proprio riflesso in uno specchio.
Emilio non aveva dovuto promettere la sua anima.
Lucida nonostante i secoli non era cambiata. Era stata chiara con il direttore. Se voleva avere successo, ogni anno, in una notte d’estate, avrebbe dovuto sacrificare un ospite. Lei lo avrebbe scelto e preso per portarlo con sé nel buio dove viveva.
Si era accorto del suo arrivo dopo aver letto il nome, Lucy Damansi, nel registro.
Aveva trascorso la notte sveglio in ufficio, in silenzio e con una bottiglia di vino.
Quando aveva visto il carro trainato da sei cavalli neri sparire verso l’alba nascente aveva tirato un sospiro di sollievo.
Tutto era andato bene.
Il patto era stato rispettato.
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