28 aprile 2009

Il killer di Varese

Il cucciolo, un incrocio tra un maremmano e un pastore tedesco, vegliava ancora il suo amico. Sdraiato al suo fianco, con una zampa sul petto e il muso posato tra la spalla e il collo, diede piccole e morbide leccate nel tentativo di svegliarlo. L’uomo, steso sul pavimento freddo, guardava un punto lontano con gli occhi vuoti e spenti.

Al Cavedio, e in ogni angolo di Varese, rimbalzava di bocca in bocca una notizia sola. Tre morti in sei notti. Studenti, due del “Cairoli”, uno dell’”Insubria”.
Lungo il Corso si respirava una paura oscura. Intorno al lago, velato dalla nebbia di fine ottobre, la pista ciclabile era deserta, e non per la temperatura pungente che arrossava la pelle.
Il primo serial killer della città giardino spaventava tutti e demoliva la sicurezza di ognuno.
Il questore non aveva rivelato alla stampa lo stato dei corpi al loro ritrovamento. Dilaniati e straziati. Con ferite profonde di artigli sul volto, sul petto e sulle mani, segno di un’inutile difesa. Morsi su ogni angolo di pelle, e carne lacerata. Nessuno era stato in grado di dire se l’arma dei delitti fosse un solo animale o un branco.
La polizia non aveva le forze per impedire un altro omicidio. Le amicizie dei tre ragazzi superavano il numero degli agenti in servizio. Il movente era un fantasma, come l’assassino, e nascosto nelle loro vite.
Quando il sole scendeva dentro il lago, sullo sfondo di un cielo grigio, nelle case la speranza era risvegliarsi senza la notizia di un altro ritrovamento.

Il cane guaì sottovoce e si rannicchiò vicino al suo padrone in cerca di calore.
Nell’aria respirò la cattiveria gratuita, debole ma ancora presente da quando quattro ragazzi erano arrivati nella cascina dismessa lungo la via Valle Luna, durante l’ora del lupo. Avevano svegliato l’uomo, l’avevano chiamato barbone, merda, bastardo, prima di coprirlo con sputi e calci. Il cane aveva ringhiato di paura, ma loro non si erano spaventi. Avevano continuato a ridere e a colpirli, senza fermarsi, senza prendere fiato. Senza motivo.
Poi erano fuggiti lasciando l’uomo a terra, con il sangue a farsi strada tra le fughe delle piastrelle.
Rimasto solo, l’animale si era sentito perso e indifeso. Poco alla volta una rabbia feroce si era insinuata nella carne e nelle ossa. Da quei ragazzi aveva imparato l’odio. Essere cucciolo non gli avrebbe impedito di servirsene per ripagare l’amore fedele del suo padrone con la vendetta.
Per tre volte aveva colpito e restituito ai ragazzi la loro stessa cattiveria.
Con l’arrivo della notte, l’animale si alzò sulle zampe. Guardò di nuovo il suo amico morto, poi uscì a caccia.

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