10 febbraio 2009

Tutta Colpa di una Pecora

La Ka mangiava la strada sterrata e solitaria. Dai finestrini entrava odore di prato e leggende, le stesse che avevo ascoltato ogni sera negli ultimi dieci giorni.

Da Est a Ovest per poi tornare a Dublino dove l’aereo mi aspettava per riportarmi a casa. Lì ero diretto, con gli occhi più al paesaggio che alla strada, in bilico tra la voglia di fermarmi in quel panorama e la voglia di arrivare in tempo all’aeroporto.
Dietro una curva trovai davanti un gruppo di pecore che avevano eletto la strada a loro casa.
Il piede si spostò da solo sul freno e le mani d’istinto girarono verso destra. Riuscii ad evitare la prima pecora seduta e immobile, ma non il muretto e l’auto si fermò dopo un colpo sordo e metallico.

Avevo sperato in una gomma bucata, da cambiare alla svelta per rimettermi in marcia verso la capitale. La ruota però pendeva desolata e senza speranza dal semiasse.
Al tempo non si può mettere fretta e mi misi seduto sul muretto con lo sguardo che vagava nella speranza di vedere arrivare qualcuno. Mi sdraiai sull’erba soffice e profumata. Allargai le braccia e le gambe e iniziai a giocare con le nuvole che veloci trasformavano il cielo da un azzurro limpido in bianco e poi ancora in celeste. Sembravano rincorrersi, agguantarsi e poi sfuggire in fretta. Dominavano dall’alto quel verde mosso dal vento che mi accarezzava leggero.
Erano stati giorni che ti entrano dentro con la forza di un pugno. Ero partito perché avevo delle ferie arretrate, un lavoro noioso e nessun amore che mi faceva passare le notti in bianco.
Per me l’Irlanda era solo “un oceano di nuvole e luce, un tappeto che corre veloce” come canta Fiorella Mannoia e spinto dalla curiosità avevo prenotato il volo. Avevo comprato una guida per farmi un’idea di quello che avrei trovato e ciò che avrei visitato. Sapevo di non avere troppo tempo e avevo pensavo a delle tappe fisse, ma che comunque mi sarei fatto accompagnare dall’istinto e da quello che vedevo o sentivo.
Ero arrivato a Dublino un pomeriggio di giugno e mi ero mischiato alla folla nelle vie del centro, con i pub agli angoli e le insegne di legno dipinto. Cena lungo il Temple Bar e poi a nanna, sotto un tramonto arancione. Con il profilo dei tetti e dei camini in mattoni e l’ombra della S.Patrick Abbey in lontananza, sembrava il più bello che avessi mai visto.
Poi mi spostai nei villaggi di poche anime, strette nel loro passato e con una mano tesa al futuro.
Volevo passare tra le abbazie di sassi e pietre, respirare il tempo che aveva soffiato su quei muri e attorno a piccole grandi croci di piccoli grandi sconosciuti.
Calpestare l’erba a ridosso delle acque del Connemara e pedalare lungo le strade sconnesse delle isole Aran.
Farmi raccontare leggende e miti di folletti e fate, a volte così veri che ti sembra di vederli saltellare tra i muretti a secco o riposare a cavallo di pecore pigre e solitarie.
Così Glendalough e Kilkenny per addormentarmi sotto la Rock of Cashel nella camera affittata da una signora paffuta dai capelli viola e col sorriso sulle labbra per la presenza di un italiano sotto il suo tetto.
E poi Cobh dalle case alte e strette, con le facciate ognuna di un colore diverso, costruite attaccate e in pendenza lungo la via centrale.
Kinsale e Old Head e quell’erba colore del grano bruciato nel tragitto tra l’uno e l’altro paese. Dingle un giorno in cui il cielo aveva un’aria cattiva e le nuvole basse e gonfie sembravano inghiottirti. La passeggiata a piedi nudi verso l’oceano lungo una spiaggia che ti dava un senso d’impotenza. Tu minuscolo, un puntino tra il mare davanti e la collina alle spalle.
Le Cliffs of Moher e la vertigine nel guardare dall’alto le rocce levigate, con i gabbiani che si facevano cullare dal vento freddo che soffiava da Ovest. La voglia e la paura di cadere, a volo d’angelo dentro quelle acque gelide, la striscia d’orizzonte stretta da un abbraccio tra cielo e mare. E rimanere lì, seduto a guardare passare le ore, senza fretta, la macchina fotografica in mano e in pace, tra le voci dagli accenti stranieri dei turisti. Aspettare il tramonto con le nuvole che si erano fatte basse e velavano quel po’ di luce arancione.

Guardai l’orologio. Il mio aereo era già sulla pista con i motori al massimo pronto per la partenza.
La pecora che mi doveva la vita era sempre seduta e tranquilla e mi fissava curiosa.
“Beh, Dolly, l’hai combinata grossa. Non è che per caso conosci un buon meccanico?”
Aspettò qualche minuto poi a fatica si alzò sulle zampe sottili, si arrampicò sul muretto di fronte e s’incamminò nell’erba. Si girò senza fretta e belò, gli occhi piccoli e neri nei miei.
“Vuoi vedere che lo conosce davvero?”
Mi portò in una casa dove un uomo era alle prese con una scure e della legna. Gli spiegai cosa mi era capitato e chiesi se poteva aiutarmi. Mi rispose che ci avremmo pensato l’indomani, era il suo compleanno e sarei stato ospite. Mi portò in cucina dove madre e figlia erano sedute al tavolo con le mani nell’impasto di una torta.

Tutto questo tre anni fa.
L’Isola ti dona qualcosa per cui vale la pena lasciare tutto alle spalle. Lavoro, amici e casa in cambio dell’ospitalità della gente, delle colazioni salate, del clima e del paesaggio e per i maglioni caldi di lana. Per la lingua gaelica seminata di termini magici e oscuri che si perdono dove la memoria diventa leggenda. Non sono più tornato in Italia e da allora divido i giorni e le notti con quella ragazza dai capelli rossi che quella sera mi prese per mano e mi portò a conoscere i segreti d’Irlanda che nessun turista può capire fino in fondo.
Solo chi ha amato davvero quelle terre ha lasciato una parte d’anima in cambio di qualcosa di molto più eterno.
L’aria di libertà.

Nessun commento:

Posta un commento