25 maggio 2010

Sulla strada di casa

Racconto inserito nella raccolta "Irlanda nel Cuore 2010"


Il pullman avanza tra le strade sterrate e strette, circondato da distese di prati verde smeraldo. Guardo dal finestrino l’oceano all’orizzonte; una macchia celeste si mescola al grigio delle nuvole basse.
Un’occhiata impaziente l’orologio: non manca molto.

Sono partita cinque giorni fa. Nella valigia avevo messo poche cose: alcune gonne, un paio di pantaloni comodi per camminare; qualche camicia e tre di quei golfini fatti a mano al corso di maglia. Per finire, sopra a tutto il resto, un vecchio K-way, indispensabile per dove volevo andare.
Il difficile è stato convincere mia figlia e suo marito che non avevo nessuna intenzione di morire. Non riuscivano a capire perché desiderassi tornare dove ero nata e cresciuta. Se non come ultimo desiderio prima di chiudere per sempre gli occhi.
«Mamma è davvero necessario alla tua età?»
«Una settimana. Due, al massimo, e sarò di nuovo qui.»
Avevo preso la borsa e troncato il discorso. Niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea.
A mio nipote, l’unico a non fare domande e guardarmi con occhi invidiosi, il compito di prenotarmi il volo e una camera per la prima notte.
«Per gli altri giorni dovrai arrangiarti, nonna. Sai cosa sono i Bed and Breakfast?» mi aveva chiesto e si era un po’ offeso quando non ero riuscita a trattenere una risata.
Dublino mi aveva accolto verso sera. Il cielo era gonfio di nuvole spezzate qua e là dai palazzi. Con la mia borsa leggera avevo passeggiato tra le luci del Temple bar e la musica trattenuta a fatica dentro ai pub. Una cena irlandese in un piccolo locale, e poi in camera, con il sonno che non arrivava più, tenuto lontano dai ricordi.
I ricordi dei miei vent’anni e dalla voglia di lasciarmi alle spalle il mio piccolo paese. Allora sognavo la libertà e la vita ribelle ispirata dalle riviste che io e le mie amiche trovavamo nell’emporio di O'Shea. Eravamo convinte che gli anni Sessanta non si potessero vivere in una contea sperduta dell’Irlanda, tra distese infinite di torba, pecore oziose e temporali passeggeri a scandire ogni ora del giorno. Non volevamo essere corteggiate da ragazzotti stupidi troppo legati a vecchie tradizioni.
Mio padre smise di parlarmi quando capì che i miei non erano capricci di un’adolescente, ma parlavo seriamente. E non c’era nemmeno mia madre, il giorno che presi il treno per Dublino e da lì un aereo verso il mio futuro. Li disprezzai perché non mi capivano e perché rendevano insopportabile, a tutti e tre, la mia partenza.
Londra, Parigi e Roma mi chiamarono. E io risposi.
Nella città eterna trovai un lavoro, una casa, un marito.
Diedi al mio passato un taglio; del mio essere irlandese restarono solo i capelli rossi, lunghi e arruffati, e piccole lentiggini che circondavano il mio viso. Dimenticai ogni cosa della mia terra. All’inizio per giustificarmi dall’averla abbandonata, con il passare del tempo per non ammettere di avere sbagliato.
Cinquant’anni sono tanti. Soprattutto quando stagione dopo stagione il peso della malinconia, delle scelte, della nostalgia ti prende e ti rode a poco a poco.
Non si abbandonano mai le proprie radici. Non si può fingere il contrario o ignorare tutti quei segnali che la vita ci lascia per strada.
La voglia di tornare me l’ha data un profumo sentito un giorno in spiaggia a Ostia. Lo stesso profumo che sentivo tutte le mattine, a casa, quando da bambina correvo a piedi nudi attraverso i prati, tra i folletti e le fate. Quando restavo in bilico sui muretti a secco circondata dal vento e dall’odore di salsedine e dell’oceano; quando mi fermavo sotto la pioggia fine, tra la nebbia della brughiera e un attimo dopo ammiravo il sole tiepido filtrare tre le nuvole. Mi ha fatto ricordare la felicità di allora e per la prima volta mi sono rammaricata di non aver potuto vivere due vite. Una irlandese e una italiana.
Quel profumo è stato un richiamo.
All’inizio debole, appena accennato. Poi lo sentivo anche quando non c’era ed è diventata una cosa più forte di me.
Dovevo tornare.
Senza fretta mi sono assaporata il viaggio lungo tutto il Sud: Cashel, Cork, Kinsale e la Old Head. Per poi risalire la costa: Dingle, Limerick, Galway, diretta a quella lingua di terra, isola dell’Isola: Achill Island sempre con quell’aria curiosa dipinta sul volto, come una turista.
In realtà riprendevo poco a poco quello che avevo perso, quello che avevo lasciato a riposare per tanto tempo. L’essere irlandesi. Amare di nuovo quelle piccole cose colpevoli di avermi spinto via da questa terra: le colazioni abbondanti e salate, la musica da vivo nei pub davanti a un piatto fumante di Irish stew e una Guinness; la lingua magica e incomprensibile per chiunque non sia nato in questi luoghi; riscoprire la cortesia, l’ospitalità infinita e senza remore della gente.

Il pullman prosegue tra le strade sterrate e strette, circondato da distese di prati verdi smeraldo macchiati da colori più caldi, giallo e marrone.
Io, in piedi, ferma davanti alla porta, guardo casa mia. Senza reti né siepi, aperta a tutti e con un piccolo orto sul retro, protetto dal vento. Così come è sempre stata.
Mio padre mi viene incontro. Sul suo viso c’è ogni segno dei novant’anni che si porta addosso, ma gli occhi sono gli stessi che mi guardavano crescere e che non mi hanno visto diventare donna.
Si fa serio e il timore di non avere avuto una buona idea nel venire fino qui mi assale e mi fa tremare le gambe.
E’ solo un attimo.
Sulle labbra gli spunta un sorriso dolce che cancella ogni preoccupazione. Allarga le braccia e lo stringo, piano, perché è così fragile, e ho paura di fargli male.
«Dia dhuit, tá mé ar ais.*» gli dico.
Le parole mi escono come se non avessi mai smesso di parlare gaelico. E’ un altro piccolo miracolo del mio paese.
Non mi stupisco più. Questa è l’Irlanda.
E io lo so bene.

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