11 maggio 2010

NEW YORK CITY - 14ST

Arriva sempre alla stessa ora, sola, con il passo tranquillo di chi non ha fretta. Scende le scale e si lascia alle spalle la luce del crepuscolo per entrare nel chiarore artificiale delle lampade al neon.
Mi passa accanto senza guardarmi. Nelle orecchie ha gli auricolari di un i-pod nascosto nella tasca della giacca. Muove la testa nel seguire il ritmo della musica e i capelli, lunghi e castani, ondeggiano come mossi dal vento. Sento il loro profumo di pesca e gelsomino, coprire l’odore di sudore, ferro e gasolio in questo angolo di metropolitana. Respiro e nello stesso tempo chiudo gli occhi e mi ritrovo al suo fianco, davanti all’oceano, a guardare un punto lontano all’orizzonte e a decidere di un futuro che non seguirà mai la stessa direzione.
Lo spostamento d’aria di un treno mi riporta in fretta alla realtà, con la schiena appoggiata a un pilastro , in compagnia di decine di pendolari.
L’ho chiamata April, è un nome che le sta bene e mi ricorda la prima volta che l’ho vista, in un aprile tiepido, con il sole pallido tra aliti di vento.
E’ bella e sempre elegante. Oggi porta una camicia bianca sopra a gonna nera, con i collant scuri a nasconderle le gambe lunghe e muscolose che spariscono in un paio di stivali dal tacco alto e largo.
Si ferma sotto il cartello 14 St., sul bordo della riga gialla, quella di sicurezza; mette le mani in tasca e aspetta. Ogni tanto guarda nell’oscurità della galleria e io spero in un ritardo per restare ancora un po’ con lei.
Ogni giorno l’aspetto e mi sembra di conoscerla sempre di più. Dal modo in cui si veste, da quello che legge, dalla musica che ascolta e che canticchia a bassa voce tra il rumore assordante dei treni e la confusione frenetica di New York.
Se avessi il coraggio mi farei avanti. Una battuta, una scusa qualsiasi per un appuntamento.
Tenendola per mano l’accompagnerei nei miei luoghi. La porterei nel centro del West Village per un pomeriggio di chiacchiere e caffè, seduti a un tavolino tra torte della nonna e the. Davanti a tazze calde, luce calda, sguardi caldi.
Poi a cena, affacciati sull’East River. Scoprire i suoi gusti, osservarla mangiare e ridere; restare senza parole davanti al suo sorriso capace di farmi rallentare il respiro. Offrirle una sigaretta e sentire i suoi occhi addosso mentre riempio la cartina di tabacco con gesti precisi e veloci. Nell’attimo in cui si avvicina per accenderla trovarsi nel dubbio se baciarla o meno.
Non accadrà mai.
Eppure non ho rimpianti. L’attesa di sentirla scendere le scale e vederla sbucare all’improvviso mi riempiono di gioia. Mi bastano quei pochi minuti con lei, uno accanto all’altra, in un sentore di intimità che va oltre il conoscersi e frequentarsi. E’ la paura di rovinare tutto che mi fa restare immobile.
Il treno arriva con un rumore assordante amplificato dalle pareti in cemento armato della stazione. I freni stridono e la gente si muove impaziente verso le porte.
April si sposta di poco, per lasciare passare la ressa. Non è quello il suo treno. E’ il mio. Sono sempre io che la abbandono per primo.
La mia mamma allunga il braccio e mi prende per mano. Ha paura che mi perda; ma ho dodici anni, sono grande abbastanza per fare tante cose, anche tornare a casa da solo.
Le porte si chiudono e guardo April attraverso il vetro sporco del finestrino. Per un momento i nostri occhi si incontrano. I miei da innamorato e suoi da ragazza misteriosa della metropolitana.
Sembra sorridere.
Sento caldo all’improvviso e dimentico per un attimo la folla del locale, l’odore di chiuso, di fritto, di sudore. Voglio scendere, tirare il freno e uscire di corsa per levarmi di dosso il dubbio.
Ma il treno mi porta via. April diventa piccola, un puntino finché non sparisce lontano.
Domani. Domani la rivedrò.
Questo mi basta.



Un grazie di cuore a Davide, per la foto, e l'idea.....

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