18 maggio 2010

NEW YORK CITY - 14ST (seconda e terza versione)

Queste sono due versioni alternative dello stesso racconto, ispirato come il precedente dalla foto di Davide.E qui scatta il sondaggio: quale delle tre preferite?


Arriva sempre alla stessa ora, sola, con il passo tranquillo di chi non ha fretta. Scende le scale e si lascia alle spalle la luce del crepuscolo per entrare nel chiarore artificiale delle lampade al neon.
Mi passa accanto senza guardarmi. Ci sono abituato; lo fa lei, lo fanno tutti. Nelle orecchie ha gli auricolari di un i-pod nascosto nella tasca della giacca. Muove la testa nel seguire il ritmo della musica e i capelli, lunghi e castani, ondeggiano come mossi dal vento. Sento il loro profumo di pesca e gelsomino, coprire l’odore di sudore, ferro e gasolio in questo angolo di metropolitana. Respiro e nello stesso tempo chiudo gli occhi e mi ritrovo al suo fianco, davanti all’oceano, a guardare un punto lontano all’orizzonte e a decidere di un futuro che non seguirà mai la stessa direzione.
Lo spostamento d’aria di un treno mi riporta in fretta dove passo le mie giornate e le mie notti, nascosto dietro un pilastro, con la schiena appoggiata al muro in cemento armato e il culo su un pavimento ricoperto di cicche.
Si ferma sotto il cartello 14 St., sul bordo della riga arancione, quella di sicurezza; mette le mani in tasca e aspetta. Ogni tanto guarda nell’oscurità della galleria e spero in un ritardo per restare ancora un po’ con lei.
Ogni giorno l’aspetto e mi sembra di conoscerla sempre di più. Dal modo in cui si veste, da quello che legge, dalla musica che ascolta e che canticchia a bassa voce tra il rumore assordante dei treni e la confusione frenetica di New York.
L’ho chiamata April, è un nome che le sta bene e mi ricorda la prima volta che l’ho vista, in un aprile tiepido, con il sole pallido tra aliti di vento. Vestita con una camicia bianca sopra una gonna nera, con i collant scuri a nasconderle le gambe lunghe e muscolose che sparivano in un paio di stivali dal tacco alto e largo.
Come dimenticare quel giorno?
Due portoricani, due ragazzini che si avvicinano. Le chiedono una sigaretta. Lei fa cenno di no con la testa e torna a ignorarli e a guardare dall’altra parte dei binari. I due non si muovono, restano lì a un passo da lei. Vogliono sapere come si chiama, dove lavora, se studia, se ha un fidanzato, se non ha paura di girare da sola per la metropolitana.
Quello con più tatuaggi e più collane che le afferra di colpo un braccio e si avvicina per dirle qualche cosa all’orecchio. Lei che cerca di liberarsi dalla stretta e intanto si guarda intorno in cerca di aiuto.
Una gelosia e una rabbia pungente mi prendono lo stomaco. Ognuno resta nell’indifferenza, impegnato nella propria esistenza, nei propri problemi e preoccupazioni da non vedere quello che capita attorno.
Allora mi alzo traballante. L’alcool scandente, compagno di ogni minuto, sostituisce il mio coraggio.
Rivedo la scena. Io che spingo via quello più vicino, e colpisco l’altro al braccio, facendogli mollare la presa. Mi metto tra April e il ragazzo. Lui che scoppia a ridere e mostra una fila di denti d’oro. Finge di attaccarmi per poi fermarsi di colpo. Mi guarda cattivo e io ho le gambe dure e informicolate.
Poi tutto è un attimo. Il treno veloce che passa e il braccio del ragazzo che mi centra in pancia. Un dolore acuto e la sorpresa nel vedere un coltello insanguinato quando lui ritira la mano. Tossisco senza respiro, le ginocchia si piegano e crollo sul marciapiede freddo e sporco. Con l’ultimo bagliore vedo i due scappare via e April tirare fuori il cellulare dalla borsa e chiamare il 911.
Me lo ricordo ancora il giorno della mia morte.
Da allora dicono che questa sia una stazione maledetta, dove i treni fanno poche fermate e l’aria è gelida e sa di cattiveria. Io non me ne sono mai accorto, è ancora la mia casa, il mio regno dove ogni donna ha le sembianze di April e ogni uomo è un portoricano con il sorriso di denti d’oro.




Arriva sempre alla stessa ora, sola, con il passo tranquillo di chi non ha fretta. Scende le scale e si lascia alle spalle la luce del crepuscolo per entrare nel chiarore artificiale delle lampade al neon.
Mi passa accanto senza guardarmi. Ci sono abituato; lo fa lei, lo fanno tutti. Nelle orecchie ha gli auricolari di un i-pod nascosto nella tasca della giacca. Muove la testa nel seguire il ritmo della musica e i capelli, lunghi e castani, ondeggiano come mossi dal vento. Sento il loro profumo di pesca e gelsomino, coprire l’odore di sudore, ferro e gasolio in questo angolo di metropolitana. Respiro e nello stesso tempo chiudo gli occhi e mi ritrovo al suo fianco, davanti all’oceano, a guardare un punto lontano all’orizzonte e a decidere di un futuro che non seguirà mai la stessa direzione.
Lo spostamento d’aria di un treno mi riporta in fretta dove passo le mie giornate e le mie notti, nascosto dietro un pilastro, con la schiena appoggiata al muro in cemento armato e il culo su un pavimento ricoperto di cicche.
Si ferma sotto il cartello 14 St., sul bordo della riga gialla, quella di sicurezza; mette le mani in tasca e aspetta. Ogni tanto guarda nell’oscurità della galleria e spero in un ritardo per restare ancora un po’ con lei.
Ogni giorno l’aspetto e mi sembra di conoscerla sempre di più. Dal modo in cui si veste, da quello che legge, dalla musica che ascolta e che canticchia a bassa voce tra il rumore assordante dei treni e la confusione frenetica di New York.
L’ho chiamata April, è un nome che le sta bene e mi ricorda la prima volta che l’ho vista, in un aprile tiepido, con il sole pallido tra aliti di vento. Vestita con una camicia bianca sopra una gonna nera, con i collant scuri a nasconderle le gambe lunghe e muscolose che sparivano in un paio di stivali dal tacco alto e largo.
Come dimenticare quel giorno?
Due portoricani, due ragazzini che si avvicinano. Le chiedono una sigaretta. Lei fa cenno di no con la testa e torna a ignorarli e a guardare dall’altra parte dei binari. I due non si muovono, restano lì a un passo da lei. Vogliono sapere come si chiama, dove lavora, se studia, se ha un fidanzato, se ha paura a girare da sola per la metropolitana.
Quello con più tatuaggi e più collane che le afferra di colpo un braccio e si avvicina per dirle qualche cosa all’orecchio. Lei che cerca di liberarsi dalla stretta e intanto si guarda intorno in cerca di aiuto.
Una gelosia e una rabbia pungente mi prendono lo stomaco. Ognuno resta nell’indifferenza, impegnato nella propria esistenza, nei propri problemi e preoccupazioni da non vedere quello che capita attorno.
Allora mi alzo traballante dal mio angolo. Rivedo la scena. Io che spingo via quello più vicino, e colpisco l’altro al braccio, facendogli mollare la presa. Mi metto tra April e il ragazzo. Lui che scoppia a ridere e mostra una fila di denti d’oro. Finge di attaccarmi per poi fermarsi di colpo. Mi guarda cattivo e io ho le gambe dure e informicolate.
Poi tutto è un attimo. Il treno veloce che passa, il ragazzo si distrae un secondo e il mio pugno lo colpisce in pieno viso. Qualcosa mi è rimasto di quando tiravo cazzotti su un ring.
Il giovane rimane a terra e l’amico a fatica riesce a tirarlo su e a scappare in fretta.
April è salva, per merito mio.
Già, così sarebbe dovuta andare.
La verità è un’altra e l’alcool è un brutto amico che confonde i contorni tra realtà e finzione.
Io non mi sono mai alzato dal mio buco, sono rimasto attaccato al mio cartone e alla mia bottiglia piena a metà.
Ho guardato i due provarci con la ragazza sotto gli occhi indifferenti di gente in giacca e cravatta ma con l’animo sporco come me.
April si è sbilanciata nel liberarsi, ha perso l’equilibrio ed è caduta sulle rotaie.
Non ha fatto in tempo.
Quei due sono fuggiti nella direzione opposta rispetto a quella del vagone, che arrivava frenando e soffiando come una creatura viva.
April ogni sera arriva sempre alla stessa ora, la vedo scendere i gradini e fermarsi ad aspettare, con la musica nelle orecchie a scandire gli ultimi minuti della sua esistenza.
E’ la mia maledizione, la mia colpa. Mi dà le spalle; solo nel momento in cui arriva il treno si gira a guardarmi, con occhi spenti e tristi.
Poi sparisce nello spostamento d’aria.

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